Una delle cose più fastidiose del mio viaggio è stato il non riuscire a capire quasi mai cosa rispondessero gli inglesi alle mie semplicissime domande: un tassista alla stazione di Cambridge cui ho chiesto se fosse il primo disponibile (mi ha sciorinato una lunga e articolata risposta, e solo dopo il mio sguardo sbigottito è sceso ad aprire il bagagliaio per farmi caricare la valigia), un addetto ai tornelli della metro a Victoria a cui ho chiesto se era la linea giusta per Paddington (altra risposta-fiume snocciolata a una velocità inarrivabile per me), cameriere nei pub, receptionist all'albergo, e molti, molti altri casi.
In base alla mia breve ma credo significativa esperienza, ho concluso che:
1) gli inglesi non hanno il dono della sintesi e
2) nascono e crescono nella convinzione, non del tutto erronea, che la loro lingua è l'Idioma Universale, e sono gli altri che devono adattarsi, non loro.
Col paradossale risultato che la conversazione più lunga e più piacevole che ho avuto in inglese nella mia vacanza è stata con la mia vicina d'aeroplano, una tipa giapponese (mi ha detto il suo nome, ma era talmente inusuale per me che l'ho dimenticato dopo pochi istanti) che quando mi ha visto accendere l'iPad si è incuriosita e ha iniziato a farmi domande.
In un inglese perfetto, lento e deliziosamente comprensibile.
– È un iPad, giusto?
– Certo. – La guardo, è vestita tutta di nero con qualcosa senza marche visibili, ha appena un filo di trucco e i capelli liscissimi con la classica frangetta giappo. Viaggia con un'amica in felpa grigia a cui non frega niente dell'iPad e legge tutta concentrata un manualetto in giapponese.
– Bellissimo. – fa un sorriso educato. – Io ho un iPod. Sono belli, vero?
– Sì. Vuoi provarlo?
– Mi piace molto, davvero posso toccarlo?
Sorrido anch'io. L'educazione quasi collegiale dei giapponesi mi ha sempre fatto tenerezza.
– Ma certo.
La tipa allunga le mani, affusolate, pallide e con le unghie mangiate e accarezza il vetro dell'iPad. Tocca le icone, fa succedere qualcosa qua e là, e la sua concentrazione sembra totale e trasognata assieme.
Le parlo fornendole qualche dettaglio tecnico nell'inglese più pulito di cui sono capace, ma non riesco neanche a capire se mi stia ascoltando. Poi smetto di parlare, e lei mi guarda, e capisco che non solo mi ha ascoltato, ma vuole sentire il resto.
– Qui puoi accedere alle immagini registrate sull'iPad. Non ci sono cartelle, ma mucchietti di fotografie. Se le tocchi, si espandono. Per navigare nelle foto basta toccarle.
– Sono fotografie tue?
– Per lo più. Ma non ne ho nessuna dell'Inghilterra. Non ce le ho ancora caricate.
– Oh – mi fa, con aria grave. – Però – sorride di nuovo – sono tutte belle.
– Beh... grazie. – vorrei chiederle se è proprio vera la storia che la loro educazione non gli consentirebbe mai di dirmi il contrario e di fare apprezzamenti meno che positivi in qualunque caso, ma temo che sarebbe ineducato da parte mia e forse il mio inglese neanche mi sosterrebbe, così la lascio continuare a sfiorare il vetro dell'iPad e a guardare il suo profilo delicato, così alieno per un volgare occidentale come me ma per niente fuori posto nell'atmosfera ovattata e irreale del 737 che vola sopra la Germania nella notte come un intruso di ferro nel cielo senza traccia di presenza umana.
Parliamo ancora un po', poi mi restituisce l'iPad. Guardo fuori dal finestrino, senza vedere niente altro che qualche stella lontana e un blu sporco e uniforme. Quando mi giro di nuovo verso lei e la sua compagna, stanno dormendo inseguendo qualche sogno dove io non potrei mai entrare, e anche l'iPad è scivolato automaticamente nel suo sonno elettronico con una dissolvenza abilmente studiata dai suoi progettisti.
Io mi sistemo le piccole cuffie bianche di plastica nelle orecchie, cerco una canzone sull'iPod.
È New Gold Dream dei Simple Minds. Perfetta.
Chiudo gli occhi e vado in standby anch'io.